Tanti in Italia gli atipici che non hanno più un’occupazione e cercano disperatamente un posto

Il 19 marzo 2007 è ricorso il quinto anniversario della morte di Marco Biagi, giuslavorista bolognese assassinato dalle Brigate Rosse e fautore della tanto discussa legge omonima. Anniversario che è stato l’ennesima occasione per sollevare altre polemiche attorno alle responsabilità o meno di tale legge. E mentre gli “addetti ai lavori” discutono e litigano, c’è un intero popolo che fatica a vivere.
Uno degli aspetti che i grandi numeri continuano a non prendere in considerazione è il periodo post-contratto, ossia il periodo che segue la fine dei contratti a termine, spesso molto più lungo dei contratti stessi. Bene, in questo caso si continua ad essere precari? Certamente sì. Non solo, si diventa iper-precari. Cioè precari all’ennesima potenza.
Ma quanti sono gli italiani che oggi si ritrovano a piedi per colpa di una collaborazione che non è stata rinnovata? Quanti sono i giovani e i meno giovani che sono dovuti uscire una sera dai cancelli delle imprese per non tornarci all’indomani perché il contratto è scaduto? Secondo lo studio Quanti sono i lavoratori precari realizzato da due ricercatori italiani (Emiliano Mandrone dell’Isfol e Nicola Massarelli dell’Istat), il numero dei lavoratori precari non più occupati arriva quasi a un milione. Per la precisione 948mila uomini e donne (vedi tabella). Tantissimi. Troppi.
«I risultati di questa analisi – spiega Mandrone – sono stati elaborati esclusivamente da due fonti ufficiali: la Rilevazione Continua sulle Forze Lavoro dell’Istat e la nuova indagine PLUS realizzata dall’Isfol in collaborazione del Ministero del Lavoro».
Vediamo, dunque, i risultati. In tutto, tra collaboratori, partite Iva, dipendenti a termine (occupati e non più occupati) si arriva a quasi quattro milioni. Una galassia che sembra farsi sempre più grande e dove i singoli satelliti non riescono mai a trovare un’orbita stabile intorno a un impiego. E tra questi, quelli con l’orbita più incerta sono proprio gli iper-precari, i precari non occupati, una nuova categoria a cui gli autori dello studio invitano a prestare molta attenzione.
«Ci sembrava che le stime sul precariato che circolavano – ha detto Nicola Massarelli ricercatore Istat – avessero il grave difetto di considerare soltanto le persone occupate, seppure con contratti di natura temporanea. È invece insita in un modello di mercato del lavoro flessibile la possibilità che a periodi di occupazione se ne alternino altri di non occupazione. A nostro avviso, quindi, occorre conteggiare, tra i precari, sia le persone che lavorano con forme contrattuali a termine, sia quelle che non hanno più un lavoro. I precari non più occupati sono tanti e sono quelli che più necessitano di adeguati ammortizzatori sociali».
La gran parte di loro sono persone che si sono trovate costrette ad accettare dei contratti a termine e che sono state invitate ad uscire dalla vita dell’impresa. In tutto 789mila. Tutte persone che per lo più i contratti a termine non li avevano di certo scelti, in mancanza di alternativa. Ma quali sono le ragioni di questa esplosione continua nelle imprese dei contratti a termine alle dipendenze? «Il lavoro temporaneo – spiega Massarelli – si presenta con molte facce, e ogni fattispecie contrattuale risponde ad esigenze diverse. Le forme di rapporto di lavoro alle dipendenze con una scadenza sono molte, dal lavoro interinale ai contratti a termine, dall’apprendistato ai contratti di inserimento lavorativo e via discorrendo. Complessivamente, tutte queste fattispecie interessano un numero di persone maggiore dei contratti di collaborazione. Il successo dei contratti a termine è solo in parte dovuto alla flessibilità che essi assicurano alle imprese. Un elemento che sicuramente ricopre un peso rilevante è costituito dal loro costo, che per le imprese è generalmente inferiore rispetto ai normali contratti a tempo indeterminato».
La difficile sostenibilità sociale di questo fenomeno si acuisce se si pensa che il fenomeno non riguarda solo i giovani. «La precarietà lavorativa – prosegue Massarelli – coinvolge prevalentemente i giovani nella fase di ingresso del mercato del lavoro. Le forme contrattuali flessibili stanno però prendendo sempre più piede anche tra le persone non più giovanissime. La non trascurabile incidenza del lavoro temporaneo tra le persone di 40-45 anni evidenzia la possibilità che questo finisca per costituire una vera e propria trappola della precarietà piuttosto che una via di accesso al lavoro con la elle maiuscola».
Molti affermano che quella del lavoro a termine sia una situazione temporanea e questo status porti verso contratti più stabili. Ma quante possibilità hanno davvero queste persone di entrare nel mercato del lavoro a tempo indeterminato? Quali sono le variabili che entrano in gioco nel determinare il destino di questi lavoratori? «Ovviamente i contratti a termine sono anche un’occasione per accedere al mercato del lavoro più stabile – dice Mandrone – tuttavia il tasso di conversione di occupazioni precarie verso lavori stabili è sempre più basso e il momento della trasformazione del contratto sempre più posticipato nel tempo. Inoltre non sono esposti tutti i lavoratori in maniera proporzionale: i lavoratori del Mezzogiorno, i giovani, le donne e gli over50 (che hanno perso l’occupazione) corrono rischi maggiori di avere occupazioni precarie e di avere esiti occupazionali meno favorevoli».
Significativo, ma forse meno di quanto si pensasse, il gruppo di coloro che si sono visti scadere il contratto di collaborazione senza un rinnovo. Tra collaboratori occasionali e a progetto o co.co.co del pubblico impiego ci sono infatti 120mila persone che sono già alla ricerca di un lavoro e sono pronte ad accettarlo immediatamente. Ancora minore, ma pure significativo, il numero di quelli con partita Iva: 38 mila i “senza impiego”. Gli occupati in questa categoria oggi sono invece pari a 365 mila.
Ma cosa si può fare per rendere meno difficile l’alternanza tra periodi di occupazione e periodi di non occupazione? Per Mandrone si deve partire soprattutto da un miglioramento dei servizi di intermediazione. Servizi pubblici in primo luogo ma anche privati al fine di minimizzare i tempi di non occupazione. Investire in formazione durante tutta la vita lavorativa, per essere sempre pronti per la domanda del mercato. Avere garanzie sulla continuità del reddito e la contribuzione previdenziale nei periodi di non occupazione. Inoltre è sempre più necessario attivare procedure di selezione formali per garantire a chi investe nel proprio capitale umano migliori chance occupazionali.