Prima il Sacro Gra al Festival del Cinema di Venezia, ora Tir a quello di Roma. Ieri Gianfranco Rosi, ora Alberto Fasulo, documentarista più che regista. Entrambi sono riusciti a vincere con “l’altro cinema”, ovvero il documentario di finzione, non estremamente puro nel suo genere, ma comunque in grado di inserirsi in quel mondo parallelo al cinema, del  quale è controcanto e controcampo. Scrive il Direttore del Festival di Locarno, Carlo Chatrian: «Contento non solo perchè il premio corona un lavoro di tanti anni, ma perchè il film è il frutto di un progetto unico, capace di scompaginare le carte, rompere le barriere, fare un film di finzione con la realtà o, se si vuole, costringere un attore a calarsi nel reale che lo circonda. E pazienza se la stampa ridurrà il tutto ad una facile formula, “la rinascita del doc italiano”».
Dunque, lunga vita al documentario italiano, da sempre parte integrante della cultura italiana, e mai preso seriamente in considerazione, perchè noioso, poco appetibile, per niente remunerativo.
Nato in Italia nei primi anni del Novecento, grazie a Luca Comerio e Roberto Omegna, passando per gli anni dell’Istituto Luce, il documentario si è pian piano evoluto, grazie anche ai mutati orizzonti del dopoguerra che concorrono ad un processo di alleggerimento da miti costruiti in epoca precedente e ormai decaduti. Si arriva così ai tempi dell’inchiesta televisiva, dell’impegno e della militanza, dei Cinegiornali liberi di Cesare Zavattini e della tv di Joe Marrazzo. E dei docu-film di Michelangelo Antonioni, Gente del Po, Francesco Rosi, Mani sulla città, Vittorio De Seta, Banditi ad Orgosolo
Ma il documentario non si ferma alla sola denuncia politica e sociale. In quel periodo, siamo nel 1965, la Esso affida a Folco Quilici la realizzazione di una serie di film sull’Italia, filmata prevalentemente dall’alto. Nascono così i 14 documentari de L’Italia vista dal cielo, aventi l’obiettivo di ritrarre le bellezze paesaggistiche, artistiche e architettoniche di ogni regione dell’Italia. La voce narrante fu dell’attore Riccardo Cucciolla.
Oggi il documentario resta un genere settoriale, di nicchia, con pochi produttori disposti a comprare e pochi spettatori disposti a guardare. Un nuovo fenomeno legato è quello del recupero dei filmati amatoriali prodotti in Italia, i cosiddetti film di famiglia, che però hanno un enorme valore storico, culturale e di recupero della memoria. Pioniera di questo movimento è stata l’Associazione Bolognese Homemovies (Archivio Nazionale del film di Famiglia), la prima a capire il valore e l’importanza di creare un archivio storico con questa tipologia di materiale filmico.
Nonostante ciò, il documentario rimane nascosto. A volte fa capolino e si affaccia timidamente in televisione, con passaggi in orari tremendi (di notte) o su reti di seconda fascia (Avere Ventanni, di Massimo Coppola, Mtv). Perchè è proprio la televisione, quella grande scatola rettangolare, che è padrona della nostra realtà.  Almeno fino a ieri, quando qualcuno, stranamente, si è accorto di Rosi e Fasulo. E di tutto quel background cinematografico-documentaristico da sempre in fermento alle loro spalle. Perchè oggi, come scrive Marco Bertozzi in Storia del Documentario Italiano, «l’idea documentaria attraversa ormai i territori più stimolanti della riflessione estetica contemporanea. Forme che non abbracciano solo il cinema e investono altre discipline», come letteratura, musica, teatro. E si percepisce uno scenario odierno caratterizzato dalla consapevolezza del moltiplicarsi di punti di vista possibili, inclusi nei dispositivi tascabili che accompagnano il nostro vivere, in attesa di registrarne la memoria.