I 60enni dominano politica, imprese, cultura e professioni. Solo un docente su 3 è scientificamente “produttivo”

L’Italia che conta ha i capelli grigi. Alle leve di comando ci sono i cinquanta-sessantenni, e ai vertici di banche, aziende, istituzioni, giornali, sindacati, negli scranni in Parlamento e sulle cattedre universitarie siedono signori (signore poche) che costituiscono una vera gerontocrazia. Un “tappo” che spinge verso il basso e trattiene la crescita di quelli che sono arrivati dopo. Ma quello che più preoccupa è il futuro, non ci sono cenni di cambiamento. Basta dare uno sguardo alle cifre di una indagine recentissima, fatta da Vision, e che verrà pubblicata su Reset. Nella classe dirigente solo il 4% ha un’età compresa tra 31 e 40 anni e il 15% è nella fascia tra 41 e 50 anni. Il gruppo più consistente di dirigenti ha i capelli grigi, con un’età tra 51 e 60 anni. Se ci spostiamo nella classe politica, le percentuali non migliorano. Solo il 5% ha tra i 30 e i 40 anni; il 7% tra i 40 e i 44 anni; mentre la maggioranza, il 72%, ha tra i 45 e i 60 anni. E i trentenni, che aspirerebbero ad avere una posizione di centralità nella società della tecnologia e dell’innovazione? In realtà, tranne poche eccezioni, sono confinati ai margini. La loro è diventata la “generazione invisibile”, che non riesce a sfondare perché il potere resta nelle mani degli ultracinquantenni. E non c’è da stupirsi, dicono gli analisti della società, il “peso” anagrafico degli adulti-anziani è maggiore di quello dei giovani. L’Italia invecchia e i quindicenni numericamente sono stati scavalcati dagli ultra-sessanticinquenni. Risultato: le politiche di sviluppo sono programmate da chi ha in mente lo standard dei meno giovani.
Intanto, la questione giovanile rimane irrisolta. «Come il traffico, come le inefficienze dell’amministrazione pubblica o come il ritardo del Mezzogiorno. La situazione non è drammatica, ma è seria. Senza precisi responsabili, senza colpevoli, i giovani sono diventati una categoria sociale che forse non esiste», lo scrivono i ricercatori dell’indagine di Reset. Ma se andremo avanti di questo passo ci mancherà l’ossigeno.
Quanto è grave il fenomeno? Cerchiamo di capirlo analizzando i principali settori della società. Nelle imprese solo 5 dirigenti su 100 hanno meno di 40 anni e solo un quinto ha meno di 50 anni. Del resto, quasi la metà di chi governa il Paese ha un’età superiore a quella dei pensionati italiani, ossia più di 65 anni. La nostra classe dirigente è dominata da persone che, per qualsiasi altro lavoro, non sarebbero più considerate una “forza” da impiegare. Anche nei ranghi dei “giovani industriali” dove si può immaginare che l’iniziativa personale possa essere una carta vincente, in realtà i giovani non sono i fondatori delle attività che dirigono. E’ come se tutto fosse stato già fatto e non avessimo più nulla da chiedere alle nuove leve. Invece, non è così. Continuano i ricercatori: «Se in politica, nelle imprese e nei giornali esiste una questione generazionale di dimensioni più rilevanti di quanto non ci aspettassimo, la misura del gap, ma soprattutto dei costi che ne derivano, nelle università ha assunto contorni drammatici. E’ lo stesso ministero che mette in luce il problema». Se 15 anni fa il 60% dei docenti universitari si collocava nella fascia di età tra i 24 e i 44 anni, abbiamo ridotto la percentuale della metà. Significa che ora appena il 30% non supera i 44 anni. Di più. Solo il 29% dei docenti di ruolo appartengono a quel segmento di età che il ministero considera «scientificamente produttiva». La lista degli esempi potrebbe proseguire. Risultato: «Stiamo bruciando buona parte del futuro di questo Paese», dicono allarmati gli analisti.