«Non siamo mai stati orgogliosi di Jim quanto finora. Ha donato la vita raccontando al mondo intero le sofferenze del popolo siriano». Le parole sono di Diane Foley, madre di James, il giornalista americano ucciso l’altro ieri da Isis in Siria, la cui atroce morte è stata diffusa in rete attraverso un video. Rapito già nel 2011 durante la guerra in Libia, e rilasciato dopo poco più di un mese di prigionia, questo volta James  non ce l’ha fatta a sopravvivere ad un secondo rapimento, che durava dal novembre del 2012. Lui era un cacciatore di notizie, come scrive la giornalista Clare Morgana Gillis nell’articolo “Il mio amico James Foley“, sua compagna di disavventura in Libia. «Non ero mai stata in una zona di guerra prima d’ora. Dopo aver passato anni a raccontare i conflitti, Jim mi diceva quando abbassarmi e quando correre. Salvò la mia vita per ben due volte nel giro di un mese. Jim vede il bene quasi dovunque e in chiunque. E’ un motivatore come nessun altro. E’ impaziente con i posti di blocco, con l’inazione, con qualsiasi cosa che rallenti il suo andare avanti. Cerca sempre di raggiungere il prossimo posto, per avvicinarsi a quello che sta succedendo. Abbiamo condiviso una cella per due settimane e mezzo, e ogni giorno tirava fuori delle liste di cose per farci parlare. I migliori 10 film. I libri preferiti. La caduta dell’Impero Romano e la rinascita della civiltà occidentale. Dopo un interrogatorio di 6 ore, completamente in lacrime, lui aveva la forza di dire: E’ il loro lavoro (dei terroristi, ndr), lo hanno fatto a te oggi, lo faranno a me domani. Cerca di dormire».
Questo era James Foley, vittima numero 44 nella triste classifica dei giornalisti uccisi secondo quanto riporta Reporters Sans Frontieres, associazione no profit fondata a Montpellier nel 1985 da quattro giornalisti: Robert Ménard, Rémy Loury, Jacques Molénat and Émilien Jubineau.
Dall’inizio dell’anno quindi sono già 44 i giornalisti uccisi, 8 gli assistenti e 12 i blogger. Contro i 71 del 2013. Gli imprigionati sono invece 178 tra i giornalisti, 11 tra gli assistenti e 190 tra i blogger. Le zone più a rischio sono la Siria e la Palestina, dove i conflitti sono stati portati all’esasperazione. Senza dimenticare l’Iraq, le Filippine e l’Afghanistan.
Come già scritto per Simone Camilli, questi ragazzi rischiano consapevolmente la vita ogni giorno per fare informazione e per raccontare la realtà così come si presenta, senza filtri e senza censura. Se i giornalisti non fossero liberi di riferire i fatti, denunciare gli abusi e informare il pubblico, il loro operato non avrebbe senso. «Imploriamo i rapitori di risparmiare la vita degli ostaggi rimanenti. Come Jim, sono innocenti. Non hanno alcuna possibilità di interferire con la politica del governo americano in Iraq, Siria o qualsiasi parte del mondo». Le parole della madre di James Foley, vere e sincere, e la morte dei 44 colleghi, aprono dunque una lunga riflessione su come stia cambiando il giornalismo al giorno d’oggi. Bisogna avventurarsi in zone di guerra per fare del vero e puro giornalismo? Bisogna rischiare di sacrificare la propria vita pur di inseguire una notizia? Si deve tentare di scrivere, fotografare e filmare a proprie spese per assolvere il diritto e dovere di informare l’opinione pubblica, pur essendo consci che i Governi non muoveranno un solo dito per risolvere questo o quel problema? Oppure, al contrario, si può fare del buon giornalismo anche a casa propria, lottando quotidianamente contro il perdurante problema della censura? Il mondo di internet e i social network hanno indubbiamente aperto uno squarcio di luce in questa direzione. Contro il bavaglio di un editore, il giornalista può rimediare pubblicando su piattaforma web. Ma con quali conseguenze contrattuali, economiche e legali? Oggi, la linea tra la libertà di informazione e la possibilità di essere censurati (e perseguiti) è molto sottile. A far la differenza tra un giornalista qualunque e un buon giornalista, sono le scelte personali, la passione e lo spirito con cui si affronta la splendida avventura di tale meraviglioso mestiere. Per questo, le parole di Tiziano Terzani sono più che mai attuali: «Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione religiosa, se vuoi, non cedendo a trappole facili. La più facile, te ne volevo parlare da tempo, è il Potere. Perché il potere corrompe, il potere ti fagocita, il potere ti tira dentro di sé! Capisci? Se ti metti accanto a un candidato alla presidenza in una campagna elettorale, se vai a cena con lui e parli con lui diventi un suo scagnozzo, no? Un suo operatore. Non mi è mai piaciuto. Il mio istinto è sempre stato di starne lontano. Proprio starne lontano, mentre oggi vedo tanti giovani che godono, che fioriscono all’idea di essere vicini al Potere, di dare del “tu” al Potere, di andarci a letto col Potere, di andarci a cena col Potere, per trarne lustro, gloria, informazioni magari. Io questo non lo ho mai fatto. Lo puoi chiamare anche una forma di moralità. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo le domande. Questo è il giornalismo».

Pubblicato su Il Cambiamento