Capossela sponza Frascati

Inzuppato di vino bianco, fradicio di sudore danzereccio, felice come un bambino dell’asilo ma sensibile al digiuno dei fedeli per la pace in Siria, Vinicio Capossela ha “sponzato” il pubblico del Festival Frammenti, accorso numeroso a chiusura della quarta e ultima giornata della manifestazione. Al ritmo contagioso di mazurke, polke, valzer, tanghi, quadriglie e fox trot, sotto le luminarie scenografiche addobbate all’occorrenza, lui e la Banda della Posta hanno dato vita ad uno sponz di massa, etimologicamente derivante da “sponzare“, ovvero imbeversi, inzupparsi, appunto rendersi fradici (e da cui è nato anche lo Sponz Fest a Calitri). «Normalmente si dice del baccalà, che viene venduto rigido e salato – afferma il cantante – e per rendersi commestibile deve essere messo in ammollo, deve appunto “sponzare” almeno tre giorni, cambiandogli spesso l’acqua. A quel punto perde rigidità e salinità e diventa buono da mangiare». Musica, racconti e filosofia pura, un ritorno alle origini, alla musica degli sposalizi e alla vita di paese, esaltazione pura dell’essere piccoli contro un mondo che si allarga sempre di più.
Due ore di musica popolare, fra balli, danze e un repertorio della musica degli anni ’50 e ’60, quella degli sposalizi appunto, con brani estratti dal disco Primo ballo della Banda della Posta, riarrangiati da Capossela e conditi da alcuni omaggi ai cantanti da “emigrazione ferroviaria”: Salvatore Adamo, Rocco Granata e il più celeberrimo Adriano Celentano. E poi all’incontrè, i suoi brani, Con una rosa, Che coss’è l’amor, Pena dell’alma, Al veglione, tutti in versione “sposalizia”, «adatta ad alleggerire le cannazze di maccheroni e a “sponzare” le camicie bianche, che finivano madide e inzuppate, come i cristiani che le indossavano». Un’atmosfera speciale, creata da Vinicio ma resa tale dalla Banda della Posta, complesso di anziani musicisti del paese di origine della famiglia Capossela, Calitri, Avellino, nell’Alta Irpinia, i quali erano soliti riunirsi, tanti anni fa, davanti alla posta per controllare l’arrivo delle pensioni. Al giungere dell’assegno, «sollevati, tiravano fuori gli strumenti dalle custodie e si facevano una suonata. Il loro repertorio fa alzare i piedi e la polvere e fa mettere ad ammollo le camicie sui pantaloni. Ci ricorda cose semplici e durature. Lo eseguono impassibili e solenni, dall’alto del migliaio di sposalizi in cui hanno sgranato i colpi». E i tre colpi finali del concerto, come fossero i tre colpi finali dei fuochi di artificio di una festa popolare, sono stati l’Uomo vivo (Inno alla gioia), Il Ballo di San Vito e, in onore delle preghiere dei fedeli per la pace in Siria, «l’unica cosa buona e sensata che ho sentito in questi giorni», Ovunque Proteggi.
Un vero e proprio viaggio nostalgico all’indietro, fatto di sentimenti, semplicità, polvere, sorrisi e condivisione. Un’infradiciarsi di musica e racconti e una riflessione sul senso della comunità. Tutto il romanticismo di Capossela che ancora confonde il presente col passato.

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